Radio podcast killed video star

Rilancio questo bell’articolo di Michele Smargiassi sulla radio e la sua seconda vita.

La seconda vita della radio così il podcast batte la tv

La riconosce ancora, marchese Guglielmo? Un italiano su tre ascolta la radio senza frugrare l’etere con un’antenna, attingendo alle fibre ottiche di Internet; che radio è senza le onde hertziane che lei ammaestrò con tanto genio? E poi guardi questi ragazzi con gli auricolari: ascoltano programmi andati in onda magari un mese fa, li mescolano, si fanno la loro radio “à la carte: è questo a cui pensava quando sulle orme del suo eroe letterario, il folletto Puck di Shakespeare, voleva “mettere una cintura intorno al mondo”? No, Guglielmo Marconi non immaginava neppure la radio-intrattenimento, in realtà credeva di avere inventato un super-telegrafo libero da fili, è forse più padre dei telefonini cellulari che della radiofonia.

Eppure, medium non premeditato, la radio è ancora ben viva e scalciante, a dispetto di tutti i certificati di morte presunta. Dopo Internet, è il canale comunicativo che più ha visto aumentare il suo gradimento, e mica poco, addirittura del 14,8% negli scorsi dieci anni, gli anni della rivoluzione dei “personal media”, secondo i dati dell’ultimo rapporto Censis-Ucsi. C’è almeno un apparecchio radiofonico nel 98,5 % delle nostre case, anzi in media ce ne sono tre, e un italiano su tre ascolta la radio ogni giorno, mentre l’ancora possente tleevisione, che doveva soppiantarla, è stata invece nell’ultimo decennio l’unico medium a perdere utenti (un piccolo ma singolare 1,1% in meno tra quanti la vedono “almeno una volta alla settimana”.

L’irruzione della Rete ha messo in crisi la nipotina vedente e colorata; ma ha regalato una nuova giovinezza alla vecchia nonna cieca. Dal ’95, è in funzione lo standard Digital Audio Broadcasting che oltre a migliorare la qualità dell’ascolto mandando in pensione fruscii e sintonie precarie, trasforma i programmi in pacchetti numerici che possono transitare in tutti gli apparati digitali, essere duplicati come file, replicati in Rete. Ma c’è un’affinità, c’è una reciprocità che vanno oltre la tecnica. “Tra radio e Internet più che alleanza c’è coesistenza pacifica, un patto di non aggressione: non si danno fastidio, anzi sono sovrapponibili”, spiega il mediologo Peppino Ortoleva. Non è un medium geloso ed esclusivo, la radio, non lo è mai stata: multi-tasking per natura, medium “invisibile”, poco invadente, non monopolizza la nostra attenzione, non sollecita troppa interazione, occupa solo il nostro input auricolare e ci permette di fare altre cose nel frattempo, spolverare i mobili, guidare, fare jogging, perfino operare un’appendicite, e naturalmente lavorare al computer.

È questa la sua grande briscola: è il medium ideale per la nuova dimensione del tempo libero, che non si libera più a pacchetti, come nel Novecento con la settimana corta e le ferie pagate, spazi che a loro volta venivano riempiti con pacchetti di tempo liberato: le partite di calcio, il cinema. Adesso il tempo libero “è interstiziale, mobile, discontinuo” per il direttore di RadioTre Marino Sinibaldi, “e ha sempre meno posto per media unidirezionali e voraci di tempo come la tivù”. Il sempre-meno-piccolo schermo nelle case degli italiani troneggia ancora, ma “trasformato in elettrodomestico, in attrezzo su cui far “girare” le foto delle vacanze, il dvd, i videogiochi: è ormai più televisore che televisione”. E in questa dimensione da arredamento, ha perso il trend della vita nomade: anche se ora è tecnicamente portabilissima (la radio lo diventò già all’era del transistor), la mobile tv è ferma a utenze ridicole (0,9%).

Mentre la radio non “si accende” più, è sempre accesa, è ovunque, in casa ci parla dalla radiosveglia (un italiano su sei si fa destare dalla radio), dal pc, dal cellulare, perfino dalla tivù stessa, grazie ai canali digitali; fuori, è nell’abitacolo delle nostre automobili (l’autoradio, sempre più regina degli apparecchi riceventi: il 65,2% degli italiani la ascolta), nei negozi, nelle stazioni, nei taxi, negli ascensori, dal dentista; le catene di supermercati e gli aeroporti si inventano le loro simil-radio di brand, con tanto di news e pubblicità. Nella nostra dieta mediatica quotidiana la radio occupa il 72% del menù, ma qualcuno dice il 78%, perché è radio anche quella che non sembra, è radio il podcast della trasmissione preferita scaricato sul lettore mp3 e ascoltato con comodo, è radio il sito web che ti offre un nastro sonoro a tua scelta, personalizzabile, come l’americana Accuradio, è radio quel che nessuno avrebbe chiamato così solo qualche anno fa, e forse anche quel che ci si rifiuta ancora di considerare tale: vedi il boom (ora riservato, per motivi di diritti, ai soli surfer americani) di Pandora, il sito di streaming audio che ti si cuce addosso come un guanto, basta che clicchi “mi piace” o “non mi piace” man mano che ti propone brani musicali nuovi, e lei si adegua plasmando il palinsesto sui tuoi gusti.

“Piano”, frena Ortoleva, “non è radio se non ha un programma e un soggetto che lo crea e lo propone”. Il confine tra self-service e proposta è ormai incerto, ma anche stando al di qua, dove la radio è ancora “un flusso di informazioni sonore composto coscientemente in modo da essere attraente”, come dicono le definizioni più aggiornate, tutto è già cambiato. La radio, comunque sia, non si riceve più, si va a prendere: ed è questa nuova sovranità dell’utente che sta riattizzando gli entusiasmi per la radiosfera dopo la parabola che negli scorsi anni ha trasformato le radio libere in emittenti commerciali, benché accampate ai monopoli di tipo televisivo. Con l’accesso libero agli archivi e ai contenuti, col montaggio personalizzato, sembra tornata l’era della “radio libera, ma libera veramente” di cui Finardi scrisse l’inno. Non sono le pillole video di YouTube, ma programmi lunghi e complessi che i nuovi radio-fan vanno a cercare. Il più scaricato in podcast di RadioTre è Ad alta voce, letture integrali di classici della letteratura. E questa nuova radio ibridata è anche, fatalmente, una radio nuova. “Sapere che quel che stai dicendo in diretta resterà, potrà essere riascoltato a piacere, archiviato, potrà rimbalzare sui social network, condiziona il tuo modo di fare le trasmissioni”, ammette Filippo Solibello, conduttore di Caterpillar, trasmissione di RadioDue che ora produce anche versioni non diffuse via etere, messe online il sabato e la domenica quando il programma on air riposa, che stanno raggiungendo livelli di “ascolto” sorprendenti.

La radio insomma vince perché si fa trovare sempre, facilmente, ovunque, ed è garbata, divertente, discreta. Non è invadente ma, se interrogata, risponde: sms, email, blog sono ormai canali aperti al feedback in tutte le trasmissioni in diretta. Del resto, la radio seppe già integrarsi benissimo con il vecchio telefono (pioniera la sovversiva Radio Alice del ’77 bolognese), molto meglio della tivù che non andò oltre i fagioli della Carrà. E volete sapere un’ultima cosa, a proposito di telefoni? Nel 2011, mentre compie 110 anni di vita, la radio sorpassa il giovane cellulare per frequenza d’utilizzo (80,2 contro 79,5 la usano almeno una volta la settimana). Attenti, la nonnina morde. (da Repubblica del 30 ottobre 2011)

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