Zingari a Firenze: un Tabucchi ancora attuale racconta la volgarità delle amministrazioni

Una mia intervista ad Antonio Tabucchi del 1999. Si parla di Zingari, di Firenze città della moda e del denaro ma anche della città che resiste. Rilasciata all’Altracittà, giornale delle Piagge, in occasione dell’uscita del suo reportage Gli Zingari e il Rinascimento – Vivere da Rom a Firenze, è purtroppo è ancora di grande attualità nel paese dei censimenti etnici, delle ruspe e dei benpensanti “democratici”. (red)


Antonio Tabucchi esce con il suo nuovo libro “Gli Zingari e il Rinascimento – Vivere da Rom a Firenze” edito da Feltrinelli. Non un romanzo ma un reportage, una descrizione molto dettagliata della Firenze di questi anni, dove accanto alle manifestazioni che la rendono appetibile e famosa nel mondo, come ad esempio la Biennale della moda, convivono gli zingari, quelli che nessuno vuole vedere, esiliati dalla città perbenista negli angoli più nascosti della metropoli, comunque in condizioni di vita estreme. Il viaggio che Tabucchi compie nella Firenze degli anni Novanta è l’occasione per mettere a fuoco quei valori di civiltà che nelle nostre città sono annientati dal denaro, dall’incultura e dal cattivo gusto. Un’accesa requisitoria nei confronti di quegli amministratori pubblici che travisano il loro mandato e stravolgono il concetto di umanità a favore di prestazioni ad alto ritorno di immagine. Ma in questo peregrinare nella Firenze delle periferie Tabucchi si imbatte anche nelle persone vere, quelle con cui vale la pena di rapportarsi: la famiglia Krasnic, il prete delle Piagge Alessandro Santoro, l’Associazione per i Diritti delle Minoranze, la redazione dell’Altracittà, tutte esperienze che hanno, secondo Tabucchi, “il senso di che cosa sia la vita reale”. Lo abbiamo intervistato per capire meglio come si sviluppa il suo reportage fiorentino.

“Gli Zingari e il Rinascimento” è un libro che paragona la Firenze degli ultimi con la Firenze patinata della Biennale della moda.
«Quello che mi indigna di più in questo modello culturale è che queste persone, i nostri amministratori, stiano facendo politica. Nessuno li ha obbligati a ricoprire i ruoli che ricoprono, se li sono scelti, non glielo ha ordinato il medico. Stanno amministrando del denaro pubblico e manifestano nei riguardi della cultura un atteggiamento molto volgare. Questo perché la cultura che producono, quella della Biennale moda, con gli occhiali di Elton John in mostra ed altre amenità del genere, rivela una volgarità quasi insopportabile, una pacchianeria. Al di là di questo giudizio culturale estetico c’è anche una forte indignazione nei confronti di quelle persone che possono amministrare il denaro pubblico per queste sciocchezze. E’ probabile che ciò fortifichi la loro immagine, perché nel sistema in cui è strutturato il mondo moderno, quello dei mass media, il fatto che queste manifestazioni riscuotano attenzione in qualche modo li promuove. Tuttavia devono capire che non godono di immunità, che sono osservati e che questo libro è il risultato di questa osservazione. Il reportage uscirà in varie lingue e costoro sappiano che non siamo in un paese latino-americano dove possono fare quello che vogliono, ma che siamo in un paese democratico dove sono osservati. Facciano quello che vogliono, però io lo dico».

Il reportage è uscito in Germania lo scorso dicembre. Quali reazioni ha suscitato?
«In Germania il reportage ha attirato l’attenzione di un certo tipo di società che si occupa delle culture minoritarie, e non soltanto di quella formata da intellettuali. Gunther Grass ha recentemente fondato un’associazione che rivolge la sua attenzione soprattutto alle minoranze etniche Rom. Ci sono tutta una serie di regole che l’Unione Europea invita a far rispettare dai singoli paesi e che in Italia, ad esempio, sono sistematicamente eluse: dobbiamo arrivare a far sì che queste regole vengano fatte rispettare. Porto l’esempio dei campi Rom che dovrebbero essere lontani dalle grandi vie di comunicazione e dalle discariche. A Firenze ne abbiamo uno sopra una discarica e tutti sono vicini alle autostrade o comunque a grandi arterie viarie. Un altro esempio riguarda le facilitazioni che i Rom dovrebbero avere nello svolgimento della loro economia: dovrebbero poter esercitare liberamente il mestiere di ambulanti per quei manufatti di rame o di cuoio che storicamente producono. Io non ho nessun potere in questo campo. Mio compito è invece quello di invitare o perlomeno richiamare le associazioni all’esistenza di queste indicazioni comunitarie per poi trovare il modo di farle intendere alle amministrazioni locali».

Le stesse amministrazioni che spacciano il micro insediamento residenziale Rom del Guarlone (quattro casette per 50 persone) come l’intervento più innovativo e risolutore che potessero fare a Firenze.
«Avrai visto che dedico un capitoletto alla consegna di queste case avvenuta nella maniera più deplorevole e malinconica possibile. Riporto la descrizione della consegna delle chiavi, avvenuta fra le urla inferocite e i cartelli di protesta di alcuni fiorentini, mentre le autorità, vergognose del loro dono, stavano lì in un angolo».

Il libro prende spunto dal soggiorno fiorentino di Liuba, una tua amica portoghese di origine polacca, impegnata in una ricerca sulla condizione del popolo nomade. L’accompagni nelle periferie della città. Che impressione si è fatta di Firenze?
«Sì, Liuba è la persona che ho seguito e alla quale ho fatto da guida in questa Firenze, un piccolo Virgilio in un piccolo inferno. Mentre io sono solo uno scrittore che osserva una realtà e racconta ciò che vede, l’occhio di Liuba è più scientifico, è quello di un etnologo e di un antropologo che osserva certe situazioni, non solo a livello microscopico come il caso fiorentino, ma anche a livello macroscopico, a livello europeo, per trarne conclusioni scientifiche. Certo, al di là della sua obiettività e di quella scientificità che la difende dalle emozioni più immediate, posso dire che da un punto di vista umano ho potuto constatare un suo disappunto, una forte reazione emotiva di fronte a scene che ha visto e che riteneva incredibili in una città che si spaccia per città umanistica e di cultura».

In “Gli zingari e il Rinascimento” introduci il concetto secondo il quale Firenze è una banconota falsa.
«E’ una città che si spaccia per il mondo con una falsa immagine. Finché Firenze non cambierà questo volto sommerso, non sarà una città trasparente e rimarrà una banconota falsa. Tu arrivi a Chicago o a Toronto e quando dici che vieni da Firenze tutti credono che tu provenga da una vera città di cultura dove la cultura è intesa in senso ampio, umanistico. Non sanno che questa è solo la sua immagine da cartolina edulcorata e di plastica. In realta questa è una piccola città di provincia un po’ idiota, molto arrogante, che di culturale non produce niente e che anzi spende il denaro in una maniera del tutto sciocca».

Attraverso i titoli della stampa cittadina, paragoni i giorni della Biennale della moda vissuti fra mille sfarzi, alla vita nei campi Rom con 38 gradi e senza acqua.
«Avrai visto lo sciocchezzaio che ho raccolto. Giornali, anche di varie tendenze politiche, e in questo la mia ricerca è insospettabile, che riescono a produrre una massa di sciocchezze durante una manifestazione idiota come quella della Biennale e che quindi influenzano l’immaginario collettivo, perché poi le persone leggono queste cose sul giornale e poi ci credono, credono che la realtà sia questa».

Leggo un titolo “Sorpresa al gran ballo. Cenerentola regala un miliardo in cristalli” e ancora “Il sindaco afferma: siamo di nuovo capitale”.
«Ma ci chiediamo anche: capitale di che cosa? Le descrizioni dei balli con i diamanti, delle scarpette di Cenerentola, delle sere nelle ville aristocratiche, insomma, non capisco come si possa passare così il limite del ridicolo e come queste persone non si rendano conto di essere protagonisti di una tragica farsa».

Girando per Firenze hai trovato dei luoghi di resistenza.
«Sì è vero, sono quelli che io chiamo l’altra Firenze, che però sono dei protagonisti quasi clandestini in una città che vive sotto questo cappotto di falsità. Nel libro cito una Firenze diversa che appartiene anche ad un’altra tradizione culturale, posso citare i fratelli Rosselli, Calamandrei, La Pira, Padre Balducci, don Milani e ancora Pratolini, Montale, Bonsanti, Vittorini, Gadda, Landolfi, Loria; la Firenze degli anni venti-trenta che resta fondamentale per la storia italiana del Novecento. Da un punto di vista umano più esteso oggi è rappresentata da tutta una serie di associazioni costituite da persone vere, che lavorano per l’affermazione di un’identità e di un’umanità diversa, per una maniera di vivere e di convivere diversa da quella a cui si è costretti in questa città».

E arrivi così alle Piagge, un quartiere di periferia ricco di contraddizioni ma che rappresenta anche una sorta di laboratorio sociale.
«Come ho scritto, certe zone cosiddette centrali di Firenze sono infrequentabili, nel senso che un certo tipo di vita, antropologicamente parlando, non mi è consona, non mi piace, e non mi corrisponde, tanto è contrassegnata da una vistosa volgarità che non mi pare abbia nessun tratto di umano. Le Piagge sono un luogo dove vengo spesso perché ci sono molti amici e perché mi sembra di ritrovare una società segnata da una umanità della vita quotidiana che è quella in cui io mi riconosco».

Qual è stato il primo contatto con il quartiere?
«Abitavo da poco tempo a Firenze e stavo cenando con mia moglie in un ristorante. Ad un certo punto si sono avvicinati dei bambini Rom di otto, nove anni che vendevano le rose. Si sono rivolti a noi e così ci siamo messi a parlare. Ho provato a fargli scrivere il loro nome e ho scoperto che erano analfabeti. Li ho un po’ rimproverati dicendo che sicuramente il Comune metteva a loro disposizione la possibilità di andare a scuola. I bambini mi hanno guardato con aria sorniona e hanno detto che forse avevo ragione ma che il loro papà non ce li mandava, perché il loro compito era quello di vendere le rose. Io gli dissi che se avessi conosciuto loro padre lo avrei sgridato e loro mi hanno risposto: “Perchè non vieni a trovarci che glielo dici direttamente tu?”. Ci sono andato e ho trovato una situazione disastrosa, con un vecchio malato, senza nessun tipo di assistenza, in una baracca fatiscente ed è lì che è scattato un primo interesse di carattere umano da parte mia: sono subito andato a visitare anche le strutture vicine e ho visto che non avevano niente. Poi sono entrato in contatto con l’Associazione per la Difesa delle Minoranze e ho conosciuto Alessandro Santoro, il prete delle Piagge. E’ così che è nata la mia frequentazione di questo mondo fino ad allora ignoto, per me ma soprattutto per Firenze, quella Firenze che cerca di coprirlo e di nasconderlo nella maniera più ignobile».

I Krasnic, protagonisti del suo reportage, non conoscevano il Tabucchi intellettuale. Tuttavia, quando hanno saputo che sei uno dei maggiori scrittori italiani, “l’amico Antonio” è rimasto l’amico di sempre.
«Certo, perché queste sono persone che hanno una grande ricchezza e possono dare a me molte cose. Io li posso aiutare da un punto di vista sociale per le loro necessità e soprattutto da un punto di vista economico. Ma non vorrei che la mia simpatia fosse intesa come mera beneficenza. A me piace stare con queste persone, depositarie di una civiltà millenaria, con delle storie umane molto difficili e a volte molto tragiche. Sono persone che danno umanità, diversamente da certi personaggi che si incrociano in questo falso centro fiorentino. L’incontro con questi individui non ti lascia assolutamente niente, mentre quello con gli abitanti dei campi abusivi lungo l’Arno è per me motivo di meditazione, di riflessione e di arricchimento interiore».

Nel libro citi l’esperienza dell’Altracittà, il giornale della periferia. Cosa rappresenta questo giornale?
«Rappresenta le persone con cui si può parlare, con cui si può dialogare. Rappresenta le persone che hanno il senso di che cosa sia la vita e che quindi sanno che cosa è la difficoltà di vivere, di esistere, di stare nel mondo. Sono le persone che non si sono trasformate in marziani, in mostri, e che fortunatamente hanno mantenuto quello che caratterizzano i uomini ovvero il fatto di appartenere all’umanità. Questa l’unica possibilità che abbiamo per poter continuare ad esistere, perché con questa specie di astronauti che viaggiano in questi mondi di plastica, con questi mutanti che ormai sono da un’altra parte, io non ci voglio stare, non li voglio vedere, non ci voglio parlare».

Questo che descrivi è un fenomeno soltanto fiorentino?
«Il mio libro, il mio sguardo si soffermano su Firenze, questo è vero. Io non sono un sociologo, sono semplicemente uno scrittore che ha fatto un percorso e che lo ha descritto. Purtroppo temo che questa campionatura corrisponda ad una volgarità che ormai sta aleggiando su tutto il nostro paese. Quella che io descrivo è la quintessenza dell’atteggiamento di un paese intero come l’Italia, che è stato povero e che all’improvviso è diventato ricco, senza quei valori che hanno caratterizzato la civiltà europea dall’Ottocento. E’ successo quello che prevedeva Pasolini, ovvero una spaventosa mutazione antropologica rivolta verso un’omologazione sul Brutto, che paradossalmente ha trovato in questa città rappresentante del Bello la sua più visibile epifania. Temo, anzi ne sono certo, che questa mia campionatura appartenga proprio ad una mentalità che sta gravando su questa Italia contemporanea come una sorta di maledizione quasi biblica, diabolica. Noi vediamo i personaggi che sono in tv, la volgarità della vita quotidiana, vediamo la politica. Questa è l’Italia, sta diventando sempre più così. Io sono uno scrittore, osservo e dico semplicemente questo. Voi guardate, leggete».

*Cristiano Lucchi da l’Altracittà dell’aprile 1999